Articoli di Giovanni Papini

1923


in "Lettere domenicali":
Il mio Natale a Parigi
Pubblicato in: La Festa, anno I, fasc. 1, pp. 5-6
Data: dicembre 1923
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         Caro Raimondo,
   tu vuoi qualcosa in tutti i modi per questo primo numero della Festa. Vorrei contentarti, vorrei contentare tutti gli amici indulgenti e fedeli che lavorano tra Via Santa Sofia e Via Cardinal Ferrari, aspettando nella nebbia lombarda le voci che vengono dal sole santo di Gerusalemme.
   Ma dai primi di novembre non sto bene e sono assediato da troppa gente e da troppi impegni, e non so cosa scrivere, e mi pare di avere scritto più del bisogno, e tante pagine inutili, tante parole vane: una vergogna a pensarci. Vorrei tacere, raccogliermi, studiare, pregare: diventare più degno delle promesse e di tutte le speranze, umane e divine: di queste più che di quelle.
   Ma non posso dirvi di no: mi parrebbe quasi di tradirvi. E l'amicizia nostra è così bella che bisogna pur riguadagnarsela giorno per giorno con qualche sacrifizio: ch'è poi il sale amaro ma necessario di ogni « vivanda » (intesa nel senso etimologicatnente più profondo: quel che « fa vivere », ricordando che il pane è l'ultima).
   E siccome siamo vicini alla Natività ti racconterò il più malinconico, il più tetro, il più desolato Natale della mia vita. Quello del 1906, a Parigi.
   Ero andato lassù con pochissime lire italiane (per metà prese a prestito) e con moltissime speranze. Volevo scrivere un libro di filosofia, in francese, e il famoso Alcan, per raccomandazione del famoso Bergson, aveva promeso di pubblicarlo.
   Ero arrivato di novembre, in mezzo alla mota e sotto l'acqua, e mi ero allogato in un miserabile alberguccio di studenti in Via Buonaparte, vicino a Saint Germain des Près. Mi avevano messo all'ultimo piano, in una cella gelida e polverosa dove l'unico lusso era un caminetto in finto marmo con sopra un busto di Napoleone Primo in gesso.
   Sul primo quel busto mi dette un po' di animo: non era anche lui un italiano che aveva sofferto a Parigi?
   Ma dopo qualche giorno mi avvidi che il freddo e il sudiciume son gravi impedimenti alla vita eroica e anche a quella contemplativa. Non avevo soldi per comprar legna o carbone per accendere un pò di fuoco e i miei ardori filosofici si spengeveno sera per sera, quando la penna mi cadeva letteralmente dalla mano stecchita.
   La veduta che si « soffriva » dalla mia finestra non era fatta per incitarmi o consolarmi: la stanza dava sopra un cortilone buio, chiuso da muri incatramati, neri e umidi, interrotti soltanto da feritoie di latrine e da tubi di scarico. Immagina quale forza d'ispirazione poteva salire da quella cisterna d'orrori. Se non mi sono ammazzato in quel tempo vuol proprio dire che l'istinto del suicidio non entra nella composizione della mia natura.
   Arrivò il Natale. Ero solo: l'amico, unico, che avessi allora a Parigi, aveva un'amica e non poteva star con me neppure quel giorno. La sera prima avevo letto sulle cantonate un avviso che in una chiesa vicino alla Sorbonne avrebbero fatto musica di Bach: la Passione secondo San Matteo, mi pare. La mattina per tempo - il cielo era sudicio come le strade, l'anima mia fredda come l'aria — mi avviai alla ricerca di questa chiesa. Non mi riuscì di trovarla. La Sorbonne era chiusa, la cappella della Sorbonne ere chiusa, le botteghe eran chiuse, il cielo era chiuso, le faccie degli uomini più chiuse del solito: tutto chiuso.
   Pensai, allora, di andare a Notre Dame. Quella, almeno, in un giorno come questo, sarà aperta: ci sarà la messa. Io non andavo mai alla messa, ma quella mattina, pur di sentirmi cogli altri, vicino a qualcuno, in un mondo più puro delle strade e dei caffè, ero disposto ad amare anche Quello che creava, colla sua nascita, tanta solitudine.
   Appena entrato nella gran chiesa vidi subito che non c'era posto per me. Le navate eran chiuse da file di banchi dove si entrava soltanto col beneplacito di certi sontuosi servitori: a' quali le signore ben vestite mostravano non so qual misterioso lasciapassare. Il resto della cattedrale era ingombro di seggiole noleggiate e noleggiabili e i bedeauz appaltatori guardavano me, ritto e malvestito, come un intruso infruttifero. Avrei potuto inginocchiarmi, ma non sapevo inginocchiarmi. Dall'altare lontano non mi giungevi neanche una parola: sentii più ghiaccezza là dentro che sul parvis. Nessuno mi chiamò: in quella chiesa, che pareva piuttosto una sala di concerti che un luogo di preghiera, mi sentii ancora più disperatamente solo.


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   Feci gran fatica l'ora di mangiare. Andavo quasi sempre in una trattoria di studenti, vicino al Boulevard Saint Germain. A pianterreno pareva una specie di caffè popolaresco: ma salendo una scaletta girante di legno motoso, si trovava uno stanzone che gli altri giorni era pieno di gioventù divorante. parlante e ridente.
   Ma era Natale: eran partiti tutti; e chi non aveva potuto fuggire a casa sua, in provincia, era in case amiche, a Parigi. Non vidi, quel mezzogiorno, che un vecchio stinto, povero gufo della mia razza, e una donna di mezz'età che l'altre mattine pareva spaesata e superflua in quel bailamme di miseria festosa, ma che mi apparì ad un tratto come l'orfana dei secoli grigi, la vedova eterna separata per sempre dalla gioia.
   Biascicai alla peggio le mediocri pietanze, in mezzo ad un silenzio di veglie malata, senza gusto, senza appetito, senza piacere: e il Matin che tenevo accanto al piatto mi mandava il suo lezzo d'inchiostro e di « fatti diversi ». Quando ebbi ingoiato l'ultimo spicchio d'una mela, intristita in chissà quali retrostanze, il silenzioso cameriere che mi serviva sempre, venne innanzi con un vassoietto occupato da sei o sette sigari neri e da altrettanti bastoncini di zucchero d'orzo.
   — Choisissez, monsieur, s'il vota plait.
   Non fumavo sigari — e non ero più un bambino che si potesse divertire a succhiar sigari di zucchero. Pure scelsi, tra le sue offerte, la meno ripugnante: la sacre d'orge. Era l'unico dono (per modo di dire: mi costò due franchi repubblicani colla testa dell'imperatore Napoleone III) che avessi ricevuto per Natale, in quell'abbandono, io, straniero e solo, due volte straniero, milioni di volte solo.
   Misi il bastoncino giallo e appiccicoso in tasca e uscii sul boulevard solitario, piovigginoso, fangoso, senza una luce di ristoro, senza saper dove rivolgermi per accompagnare o scemare la mia tristezza. Gli altri giorni andavo sotto il loggiato dell'Odeon, a sbirciar libri e leggicchiar riviste, ma per Natale tutto ma deserto, serrato, sprangato: non avevo per me che le strade ostili, in una città dove tutti avevano una casa. Mi ritrovai sui quais, della Senna. Ad un tratto, presso un ponte, vidi un vaporino che stava apparecchiandosi alla partenza.
   — Dove va?
   — A Fontainebleau.
   — Andiamo a Fontainebleau.
   Mi avevan detto ch'era un bel posto, con un castello, memorie famose e giardini celebri. M'imbarcai. Il vaporetto si mosse fumando in mezzo ai fumi del fiume. Si Passò dinanzi allo scheletro rugginoso della Torre Eiffel, poi lungo sobborghi ignobili, terreni vaghi, campagne di nessun colore, ville spettrali, osterie di canottieri, viali deserti e rovine. A star sul ponte ero preso da brividi e la brezza bagnata mi faceva lagrimare. Ma sotto, dove stavano gli altri, al caldo delle macchine, mi sentivo gelare ancor più, fra quegli occhi estranei, che commentavano la povertà dei miei vestiti e la stranezza scarna delle mia faccia. Non m'ero sentito mai cosi abbandonato sulla terra, così respinto da tutti.
   Finalmente s'arrivò a Fontainebleau che già imbruniva. Scesi dal vaporino e subito mi trovai perso. Da che parte andare? Il castello sarà chiuso, i giardini sigillati: non sapevo la strada e non osavo chiederla a nessuno, per timidità, per stanchezza, per paura di non capire o di sperdermi. Lì vicino allo sbarcatoio erano caffè dove entravano e uscivano borghesi rossi di alcool e operai endimanchès: le donne abbraccettate ridevan forte a scatti, comte si ride per sopraffare un dolore, per nascondere un rimorso. Ebbi spavento di me, dell'oscurità, dell'ignoto: e quella po' di luce del giorno si spengeva, come se la nebbia affittisse per aiutar la notte a nascondere tutti i piaceri falliti.
   Pochi passi più là scoprii un tranvai a vapore, fermo, mezzo vuoto.
   — Dove va?
   — A Parigi?
   — Torniamo a Parigi!
   E cinque minuti dopo esser giunto a Fontainebleau il mio corpo stracco era ritrascinato a rifar per terra la strada che aveva fatta sull'acqua.
   Quanto durò quel viaggio nel lento sussulto di vetri e ferrame? Un'ora? Due ore? Fatto sta che mi ritrovai, a notte fatta, dinanzi all'architettura monarchica del Louvre - dove mi aspettavano, chiusi nella tetraggine taciturna, i miei fratelli toscani: Giotto, Giovanni Fiesolano, Benozzo.
   Quella sera non cenai nemmeno: prima dell'otto, per non tremare, ero a letto. Non ho amato mai tanto l'Italia come quella notte. E in un sopore farneticante di cieli celesti, di occhi amorosi, di care parole, di passioni inasprite, finì per me la giornata della Natività di Cristo, 1906 anni dopo l'Incarnazione.
   Perdonami, caro Raimondo, se non m'è riuscito di scriverti qualcosa di più lieto. E ho paura che questi miei poveri ricordi dell'ore più povere della mia vita non stiano a loro posto in un giornale che si chiama la Festa. Cercherò un'altra volta di riscavare in terreni meglio fioriti. Seguita intanto a voler bene lo stesso al tuo.

GIOVANNI PAPINI


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